TinyDropdown Menu Born to be Wilde: giugno 2013

lunedì 24 giugno 2013

#5 Le Boudoir: intervista ad Alexia Oldini, regista

Intervista ad Alexia Oldini, 24 anni, regista


Giovani allo sbaraglio: ecco di cosa ci piace parlare ed ecco cosa mi viene in mente pensando ad Alexia Oldini. Una ragazza che dopo il liceo ha preso, ha mollato tutto e si è trasferita a New York inseguendo un sogno.. e spesso chi ci mette l'anima in quello che fa, riesce a realizzarlo. Solo chi si è trovato almeno una volta in un paese straniero, con nient'altro che la propria tenacia e voglia di farcela, può davvero capire che il difficile non è restare e lasciarsi trasportare alla deriva dalla marea comoda della quotidianità: il difficile è partire e decidere da soli quale sia la direzione che la nostra misera barchetta deve prendere. 


Ciao Alexia, siamo felici di riceverti nel nostro piccolo spazio dedicato alle personalità creative emergenti.  Le Boudoir di Born to be Wilde ti dà il benvenuto e siamo onorati del fatto che tu abbia accettato di rilasciare quest’intervista.  Non è cosa da tutti i giorni poter fare due chiacchere con gli addetti ai lavori di un’industria come quella del cinema, figurarsi una realtà come quella del cinema indipendente newyorkese: solitamente i registi sono piuttosto inarrivabili. C’era molta curiosità a proposito di questa intervista quindi diamoci dentro:


1. Quando hai deciso che “da grande” avresti fatto la regista? Perché?
Non penso ci sia stato un momento preciso nel decidere quale carriera intraprendere. Fin da una certa eta' si e' spinti verso certe formazioni professionali da diverse circostanze, siano famiglia o amici, o semplicemente ambienti di frequentazione. Ci si ritrova spesso a esser parte di gruppi, e tendenzialmente ad attaccarsi a ideali e aspettative non necessariamente personali, ma piu' rilevanti a un concetto di massa. Ovvero, studia, trova un lavoro, qualsiasi cosa possa spingerti ad esser economicamente indipendente. Prendere rischi spesse volte diventa un opzione non possibile. Penso che prima di aver deciso in cosa imbarcarmi, ho dovuto comprendere cosa invece non volevo per la mia vita. Vedere Films e' sempre stata la mia passione piu' grande, e penso che sia stata quasi una scelta naturale piuttosto che spinta da un dovere vero e proprio. Fare regia e' solamente stata la consequenza del voler fare films, un punto di arrivo alla realizzazione di cio' che volevo intraprendere piu' che un punto di partenza.

2. Raccontaci un po’ il tuo percorso formativo dopo il liceo, la cosiddetta “gavetta”.
Non mi sono mai trovata bene in ambienti restrittivi, ed e' cosi che per bene o male che sia ho sempre percepito gli ambiti scolastici. Il dover studiare per obbligo, il dover scrivere per obbligo, il dover leggere per obbligo, son sempre stati punti di scontro nella mia vita. Penso di aver imparato molte piu' cose per me stessa semplicemente prendendo volontariamente libri di studio, piuttosto che esser martellata da insegnanti o istruttori. Finito il liceo ricordo mi presi un bel anno sabbatico nel quale poter respirare arie nuove, e davvero capire cosa volevo dalla vita per me stessa. Trasferitami a New York ho frequentato un anno di studio per regia, e decisi che, invece di continuare gli studi dietro banchi e libri, sarebbe stato meglio poter partecipare e lavorare su sets, qualsiasi posizione lavorativa potessi trovare. Penso che non ci sia stata scuola migliore per me dell'imparare in prima persona sul campo.

3. New York: dopo Los Angeles, penso sia il sogno di ogni aspirante attore/regista. Che parole troveresti per descriverla?
Ti correggo, New York e' di gran lunga molto piu' tosta di Los Angeles, dove, al contrario, chiunque tu possa incontrare si consideri parte dell'industria cinematografica, o ti rimpilzano di falsi sogni e promesse. A NY trovo che sebbene il lavoro sia di meno, le cose siano molto piu' concrete. Se ce la fai a NY, ce la fai dovunque.

4. Quali sono le principali difficoltà per chi, catapultato dall’altra parte del mondo, si trova a cominciare tutto da zero?
Qualsiasi sia la carriera e formazione lavorativa che una persona possa intraprendere dall'altra parte del mondo, ovest o est che sia, penso che la parte piu' difficile sia il lasciare le persone con cui si e' cresciuti o passato un vita insieme. Il ricostruirsi e trovare le amicizie speciali. Bisogna stare focalizzati sui propri obiettivi, o e' facile farsi prendere da emozioni e lasciare il tutto. E' la questione del prendersi rischi; una volta oltrepassato un certo limite o si va avanti a pugni stretti o non ci son piu' scelte, perche' il tornare indietro non rimane piu' un opzione. Il tuo modo di vivere, vedere il mondo, e il come lo affronti, cambia totalmente, e credo che le memorie del proprio luogo di nascita rimangano esclusivamente idealizzazioni del passato o immaginazioni di memorie adattate al nostro nuovo essere.

5. C’è stato un momento dove ti sei detta “Basta, mollo tutto e torno a casa”? Se sì, come hai superato questo momento?
Penso la domanda/risposta si possa connettere bene alla precedente. Certo che si, capita, e spesso. Ma penso che quando ami profondamente quello che fai, certi momenti bisogna esser pronti ad affrontarli. Non penso ci sia un modo preciso o particolare del come io personalmente li abbia affrontati.. si affrontano. Un po di cioccolato forse aiuta?

6. Che tipo di cinema ti piace? Quali sono le tue fonti d’ispirazione?
Tutto il cinema e' arte. Ovviamente preferenze ci sono, ma di etichettarmi con precisione a particolari momenti nella storia del cinema e/o fonti di ispirazione credo sia limitativo. A livello di genere prediligo film drammatici, sia a livello di cinema indipendente che studios. Fonti di ispirazione sono davvero milioni, e non solo connesse al cinema. Personalmente penso che a livello creativo la miglior fonte di ispirazione siano i bambini piccoli. Da adulti ci dimentichiamo come giocare con la nostra immaginazione, e “vedere” cose anche quando in realta' non c'e' proprio nulla da vedere. Se molti piu' artisti possedessero la creativita' di un bambino, sarebbero migliori su molte piu' circostanze. Se un artista potesse mescolare la creativita' di un bambino con le esperienze piu' amare di un adulto, penso ci sarebbe un scelta piu' vasta di prodotti validi nel mercato. 

7. Cosa vuoi trasmettere con i tuoi film?
Dipende dal genere, concetto, e personaggi. Qualsiasi sia, penso che la cosa che mi diverta di piu' sia il cercare di dare allo spettatore qualcosa di inaspettato. Non dargli mai quello che lui pensa stia per arrivare.

8. Qual è stata la soddisfazione più grande della tua carriera?
Quello che sto costruendo non riesco ancora a definirlo come una carriera. Mi suona arrogante. La soddisfazione piu' grande e' quella del poter andare avanti giorno per giorno facendo quello che e' la mia passione.

9.  Parlaci dei tuoi progetti: presenti e futuri..
Il mio presente e' quello a cui lavoro costantemente. Sfortunatamente in questo tipo di industria e' difficile poter pianificare per un futuro lontano. Davvero non si sa mai cosa possa capitare dall'oggi al domani. Ma so che se oggi “faro' bene” domani spingero' perche' vada sempre meglio! Il mio progetto e' quello di continuare a fare questo per il resto della mia vita e il non dover esser spinta a dirigermi verso altri campi per tirare avanti.

10. Ti senti di ringraziare qualcuno per essere dove sei arrivata?
No. AHAH Me stessa, chiunque mi abbia sempre detto che non valevo nulla e che non avrei mai fatto niente nella mia vita basandosi puramente sui loro pensieri limitati e primitivi, e mia madre per avermi dato il suo carattere di coccio.

11. Che consigli dai ai nostri lettori-aspiranti registi?
Dovrei dare consigli a chi vuole diventare competizione?! Preparati a mangiar fango, giorni di 48 ore, e stanchezze irrecuperabili. Non farti mai tirar giu' dalle critiche, vai per la tua strada, e sii sempre convinto. C'e' da sgomitare!!!

12. Domanda di rito per gli intervistati di Born to be Wilde: libro preferito e perché?
E' un po come chiedere film preferito. Ce ne sono talmente tanti che e' impossibile sceglierne uno.  Oltretutto vorrei astenermi dal rispondere poiche' i libri che leggo definiscono le mie visioni politiche, che non vorrei precisare. 

13.  Ci saluti con un tuo motto?
Non ti aspettare mai che le cose ti siano servite sotto il naso, se le vuoi lavora per ottenerle! (e' un motto? Boh..)


E anche per oggi è tutto. Vi lascio con i trailer dei suoi due film e una sua pic. Enjoy :)


TO REDEMPTION -official trailer-








venerdì 21 giugno 2013

#4 Le Boudoir: intervista ad Antonio Schiena, scrittore

Intervista ad Antonio Schiena, 21 anni, scrittore


Se siete dei  fans accaniti di Facebook, sicuro almeno una volta avrete condiviso uno dei suoi arguti aforismi o una delle sue taglienti battute sulla vita quotidiana: pillole di sarcasmo o sana ironia che spesso aiutano le persone a svegliarsi con un sorriso quando scorrono la pagina di Facebook. Ma  Antonio Schiena non è solo fautore di proverbi e immagini ironiche, è anche uno scrittore emergente con all’attivo un libro e mezzo (uno è in fase di pubblicazione) ed è per questo che ho deciso di invitarlo qui a Le Boudoir: chi nel suo piccolo non sogna di scrivere un romanzo?


Ciao Antonio, innanzitutto grazie per aver accettato l’intervista, siamo contenti di avere la testimonianza di un “collega” a supportare il nostro piccolo sforzo nel dare visibilità a personalità creative emergenti. Dato che sempre più persone affermano di sentirsi “scrittori”, siamo curiosi di sapere il percorso ideale che si dovrebbe seguire e dato che tu sei già a buon punto su questa irta strada, ti va di raccontarcelo? Cominciamo!

1.       Parlaci un po’ di te, del tuo percorso formativo, di quello che fai..Presentati a chi non ti conosce ancora.
Parlare di me è una di quelle cose che non sono mai riuscito a fare come si deve. Sono nato a San Marco in Lamis, un paesino sul Gargano. Quattro anni fa mi sono trasferito a Roma per gli studi universitari. Nel tempo libero cerco di mandare avanti la mia passione per la scrittura. Dopo la pubblicazione del primo romanzo ho cercato di crearmi un piccolo spazio su Facebook, convinto che l’interazione diretta che crea il social network sia fondamentale. Devo ammettere che il riscontro è stato soddisfacente, più del previsto, e forse è proprio grazie a questo riscontro che ora sono qui a rispondere a queste domande.

2.       Quando hai cominciato a scrivere non solo per te stesso ma per gli altri?
Non penso di aver mai scritto solo per me o solo per gli altri. Non mi sono mai posto questo problema. Il periodo in cui ho iniziato a scrivere il mio primissimo romanzo, tempo fa, cercavo di curare anche il mio blog personale. Il blog era più intimo del romanzo, naturalmente, ma ero pur sempre consapevole che qualcuno avrebbe letto quelle parole, così come il romanzo lo scrivevo per puro divertimento, ma la voglia di conoscere il parere di chi l’avrebbe letto c’è sempre stata. Per cui direi che le due cose hanno sempre convissuto, e continuano felicemente a convivere.

3.       Che effetto fa avere migliaia di persone che ragionano e interagiscono sui pensieri che scrivi?
È inutile negare che è molto piacevole e stimolante. I commenti positivi sono quelli che ti spingono ad andare avanti quando il solito pensiero “è tutto inutile” torna alla mente.

4.       Sappiamo che non ami definirti scrittore ma semplicemente un ragazzo a cui piace scrivere. Ma per te cosa significa essere scrittore?
Questa è una domanda che mi sono fatto più volte senza mai giungere a una vera e proprio risposta. Dopotutto scrittore è colui che scrive, per cui lo siamo un po’ tutti, ma ho sempre l’impressione che sia la definizione sbagliata. Per adesso però una risposta concreta non sarei proprio in grado di darla.

5.       Qual è l’autore che più ti ha influenzato a livello stilistico? E sul piano del genere narrativo?
Trovarne uno solo è sempre difficile. Ho letto molto e penso che ogni autore, a suo modo, mi abbia lasciato qualcosa. A livello stilistico direi che Francis Scott Fitzgerald forse mi ha lasciato più di altri, così come Pessoa e Dostoevskij, mentre per quanto riguarda il genere narrativo un ruolo fondamentale l’hanno avuto Agatha Christie e John Grisham.

6.       Hai già pubblicato un libro, L’appetito dei sensi,  e a breve ne uscirà  un altro, Un gioco da ragazzi. Ti va di parlarcene?
Parlare dei propri libri, per quanto possa sembrare assurdo, è sempre difficile. L’appetito dei sensi l’ho scritto in poco tempo. È nato con un racconto. Il risultato però mi ha soddisfatto più del previsto, così ho provato a inviarlo a qualche editore e, avendo ricevuto varie proposte interessanti, ho deciso di pubblicarlo. Inoltre era il primo libro pubblicato, per cui l’entusiasmo era alle stelle. Con Un gioco da ragazzi sono entusiasta allo stesso modo, ma so anche meglio come muovermi. A dire il vero l’ho scritto un anno prima de L’appetito dei sensi, ma è di quei romanzi che è meglio lasciar riposare un po’. Così l’ho ripreso in mano dopo un po’, ho corretto tutto ciò che non avrei mai notato subito dopo averlo scritto, e ho dato il via alla pubblicazione anche per questo. Entrambi thriller, per quanto non del tutto affini ai thriller che si trovano oggi in libreria. Nel senso che, dopo aver letto tanti thriller, la voglia di scrivere qualcosa di diverso, che non ricadesse nei soliti cliché del genere, era tanta, e sinceramente credo proprio di esserci riuscito.

7.       Tutti pensano che sia facile scrivere: mi siedo, comincio a scrivere sul computer quello che mi suggerisce la fantasia e divento scrittore. Non funziona proprio così, infatti spesso un libro richiede uno studio approfondito di mesi a volte, giusto per sapere di cosa si scrive. Che ne pensi? Quanto tempo richiede lo studio del contesto o della caratterizzazione dei personaggi?
Direi che è un concetto che cambia di volta in volta. Sostanzialmente scrivere sta proprio nel sedersi e premere le lettere sulla tastiera. Almeno quando si ha l’ispirazione e l’idea è nitida nella propria testa. Anche perché ci si augura che l’autore scriva di ciò che sa, per cui anche lo studio che c’è dietro (e deve sempre esserci) non dovrebbe richiedere tempo eccessivo. Chiaramente escludendo libri storici o d’inchiesta. E più o meno credo la stessa cosa per il contesto e la caratterizzazione dei personaggi. Il contesto dovrebbe sempre essere uno che lo scrittore conosce bene, solo così può risultare vero, altrimenti diventerebbe solo un esercizio di stile e ricerche, che a prescindere da tutto daranno sempre al libro un atmosfera finta. I personaggi, almeno nel mio caso, sono sempre nati nella mia testa belli e pronti, soprattutto dal punto di vista psicologico, per cui non mi sono mai posto il problema.

8.       Quali sono le difficoltà maggiori che hai incontrato nella stesura dei tuoi libri?
Sarò banale ma la vera grande difficoltà è l’inizio. In genere abbozzo tutto su qualche quaderno, poi quando è il momento di concretizzare il tutto non riesco. Mi blocco. E capita spessissimo. Se però, per fortuna, riesco a sfondare la soglia delle 20 o 30 pagine word, allora il grosso è fatto e tutto prosegue con una fluidità rassicurante.

9.       Molti dei nostri lettori sono appassionati di scrittura come noi e sicuramente la maggior parte è alle prime armi, quindi lo chiediamo a te: come si pubblica un libro? Quali sono gli step principali?
Gli step, se vogliamo, sono pochi. Ognuno però ha la sua bella durata. Il primo è ovviamente la scrittura del libro, che è la fase più veloce e più piacevole.
Poi, dopo aver terminato il libro e aver aspettato qualche mese, correggerlo da cima a fondo. Questo punto potrebbe durare davvero tanto.
Quando si è convinti del risultato, allora è il momento della scelta dell’editore. Gli editori onesti (e soprattutto free) in Italia sono tantissimi, per cui bisogna decidere a chi inviarlo e perché. La scelta è vastissima e ogni scrittore sceglierà quelle che preferisce in base ai propri criteri. Dopo l’invio, l’attesa media delle risposte è dai 6 ai 15 mesi, per cui armatevi di pazienza. Molta pazienza.
Quando (e se) arriverà la proposta che più si ritiene adatta, si firma il contratto e inizia la collaborazione con l’editore, che ci si augura esista soprattutto per la pubblicità post-pubblicazione, altrimenti riuscire a crearsi uno spazio, o comunque ottenere un minimo di visibilità, risulterà comunque un traguardo irraggiungibile.
In poche parole tocca essere molto pazienti e consapevoli che, per quanto sia un mondo difficile, le strade ci sono. Bisogna solo saper riconoscere quelle migliori e darsi da fare .

10.   Secondo te servono i cosiddetti corsi di “scrittura creativa”?
Su questo proprio non posso esprimermi perché non ne ho mai frequentato nessuno, né mi sono mai informato a riguardo. Per cui davvero non saprei su cosa basare la mia opinione.

11.   Come saprai oggi assistiamo al boom degli ebook:  generalmente un mucchio di narrativa cheap di scarsa qualità. Come facciamo noi lettori ad orientarci in questa vera e propria giungla, dove chiunque può essere scrittore grazie alla messa online del proprio ebook, secondo te?  Quali sono gli aspetti positivi e quelli negativi del boom degli ebook?
Sarò uno dei pochi, ma ancora non ho mai comprato un ebook in vita mia. Non perché li disprezzi o altro, semplicemente non ho ancora avuto lo stimolo adatto. Per ora preferisco comprare il libro cartaceo e poi riporlo in libreria. Prima o poi sicuramente comprerò un ebook reader, e a quel punto saprò dire qualcosa in più.

12.   Cartaceo o ebook? Perché?
Come gusto personale, ripeto, il cartaceo. Se si parla invece di utilità direi entrambi. Rappresentano comunque due forme diverse della stessa cosa. E qualunque novità spinga a leggere di più, soprattutto in Italia, non merita davvero di essere snobbata.

13.   Vista la crisi che da un decennio a questa parte sembra aver messo a dura prova il mondo dell’Editoria, che soluzioni proporresti per incrementare il numero di letture annuali dell’italiano medio?
Questa domanda è difficilissima. Però direi che più che un problema dell’editoria, si tratta di un vero e proprio problema culturale. Bisognerebbe trovare il modo non tanto per vendere più libri, quanto per far appassionare più gente alla lettura. E se conoscessi questo modo, chiaramente ora l’avrei brevettato e sarei un uomo ricco.

14.   Domanda di rito per gli intervistati di Born to be Wilde: libro preferito e perché?
Ovviamente Dieci piccoli indiani, di Agatha Christie. Sia perché ha una trama perfetta, sia perché è forma il primo romanzo che ho letto e che quindi mi ha fatto appassionare alla lettura quando ero piccolo. Esiste una strana forma di affezione per quel libro che sicuramente non verrà mai rimpiazzata da nessun altro. E, per curiosità, il mio blog di intitola “L’isola di Mr. Owen” proprio come richiamo all’isola e al protagonista di quel romanzo. 

15.   E anche stavolta siamo giunti al termine: ti va di salutarci con un motto o con una frase che ti rappresenta?

Oddio, non ho mai pensato a un motto, forse non sono il tipo. Intanto vi saluto tutti e vi ringrazio immensamente per avermi contattato per questa intervista, e vi lascio con la prima frase scritta su Facebook, che ha dato il via per avere la visibilità che poi sono riuscito ad ottenere, per cui mi auguro continui a portarmi bene: “Finalmente credi di essere felice, e invece sei solo ubriaco”.
Eppure adesso sono abbastanza convinto di essere davvero felice. Mi auguro di non svegliarmi domattina con un gran mal di testa e i ricordi sbiaditi.


Vi lascio con la copertina de "L'appetito dei sensi" e una bella immagine del nostro scrittore emergente.







Se inoltre vi va di scoprire di più su questo autore, vi lascio l'indirizzo della pagina facebook e del suo blog personale.


giovedì 20 giugno 2013

Nelle terre estreme di Jon Krakauer

“In America abbiamo la tradizione del “grande fiume a due cuori”: portare le proprie ferite nella natura per una cura, una conversione, un riposo o quel che sia. E comee nel caso di Hemingway, se le ferite non sono troppo gravi, funziona. Ma qui non siamo nel Michigan (o per quanto, neppure nelle grandi foreste del Mississippi di Faulkner). Qui siamo in Alaska.” Edward Hoagland, Up the black to Chalkytisik

“La felicità è reale, solo se condivisa” Tolstoj
“Happines is real, only when shared”  Tolstoj


Ok, lo so, sto diventando troppo sentimentale ma ci sono libri che giuro, non possono proprio mancare a ogni letterato che si rispetti e Nelle terre estreme di Job Krakauer è uno di questi. Questo libro è una sorta di inchiesta poco romanzata e molto curata del lungo viaggio che Christopher McCandless compì negli anni ’90, in seguito alla propria laurea, per staccarsi dalla sua famiglia e da una società che lui considerava eccessivamente consumista e soprattutto ipocrita. Ispirato da Thoreau, London e Tolstoj, Christopher decide di lasciare la civiltà per immergersi completamente nella natura con scarso equipaggiamento e scegliendo una meta quanto mai ardita: l’Alaska. Qui, dopo circa quattro mesi dall’inizio di questa sorta di viaggio della speranza, McCandless verrà ritrovato morto da un cacciatore. Krakauer grazie l’aiuto dei familiari, degli amici e dei conoscenti ma soprattutto grazie al diario che McCandless teneva di questa esperienza, cerca di ricostruire tutti i passaggi di un viaggio lungo due anni attraverso l’America inseguendo un’utopia che da sempre ha affascinato tutti i grandi letterati dai tempi di Rousseau: il ritorno alle origini, alla natura. Pagina dopo pagina, Krakauer ci racconta come McCandless sia solo l’ultimo di una valanga di avventurieri desiderosi di vivere a contatto con la natura, col proprio Io: ragazzi che mollano tutto e partono per scalare un monte, ragazzi che finiscono in un’oasi tra le gole rocciose del deserto americano.. in molti casi, ognuno con il proprio grado di squilibrio mentale.
L’autore, giornalista, ha ricevuto moltissime lettere di critica al comportamento di Christopher:  era un’idiota, non sapeva cosa stesse facendo, era troppo impreparato, era un megalomane e via dicendo. Semplicemente, secondo me, era un’idealista.  Ricordo che tra i numerosi avventurieri ce n’era uno che mi è rimasto particolarmente impresso: questi era uno studioso di antropologia e aveva deciso di sperimentare su di sé per decine d’anni se per l’uomo fosse possibile riadattarsi ad uno stile di vita primitivo. La risposta che ne aveva avuto, dopo aver sacrificato la sua vita a questo esperimento è stata NO. L’uomo non è più in grado di sopravvivere in queste condizioni, solo che McCandless non aveva avuto ancora il piacere di leggerlo su un libro. Dopo aver partecipato a tutte le speranze, i sogni, le vicende di Chris, dopo aver partecipato all’entusiasmo della partenza o alle difficoltà del tragitto, ecco che arriva uno studioso di antropologia che ci dice “No ragazzi, non è possibile, dietrofront e tu, Chris, torna a casa e trovati un lavoro”. Sarebbe stato forse deludente, ma molto più semplice e io non avrei pianto come una fontana al finale del film Into the wild.
Mi è piaciuto il fatto che la vicenda non sia stata romanzata ma sia stata trascritta così come è nata: sottoforma di inchiesta, con le testimonianze delle persone che Chris ha conosciuto lungo il suo cammino, i pensieri dei parenti e via dicendo. Lo stile è davvero ottimo, non è morboso, da rivista scandalistica o da Pomeriggio 5 e questo, a prescindere dalla drammaticità della vicenda, è piuttosto apprezzabile. La lettura non è per nulla appesantita dalle vicende dei predecessori utopisti di Chris, anzi, semmai ne è arricchita.
Un altro aspetto che mi ha fatto davvero commuovere e che vuole far riflettere è l’ephipany in cui incappa  McCandless: “happiness is real only when shared”. Da quello che ci dicono di lui amici, conoscenti e parenti, Chris non era un misantropo. Amava stare in compagnia, con gli amici, conoscere persone nuove… l’unico problema era che affrontava la vita ad un livello differente, come se nessuno a parte forse sua sorella, riuscisse a capirlo fino in fondo. Dunque partendo dal presupposto che chiunque gli sia vicino, non lo comprende, Chris parte e si lascia tutti alle spalle. All’inizio, si viene sopraffatti dalla Bellezza, in senso filosofico e in senso fisico: cieli e orizzonti sconfinati, crepuscoli ed albe magnifiche come solo la Natura selvaggia può regalare, la soddisfazione di un fuoco che riscalda o la felicità di procacciarsi il cibo.  Per un po’, tutto ciò può bastare. Dopo un paio di anni di viaggio in lungo e in largo per il continente americano però Chris arriva a questa conclusione: la felicità è reale solo quand’è condivisa. Cosa vuol dire? Vuol dire che nella vita di un uomo gli attimi di vera felicità sono pochi e preziosi.  E uno di quegli istanti viene raddoppiato quando si ha la possibilità di condividerlo con un’altra persona. E’ come una fotografia stampata su due pellicole e potrà essere ricondiviso ogni volta che si vorrà perché quando gli occhi si incontreranno, quando il reciproco pensiero si sposterà su quel ricordo, entrambi respireranno lo stesso frammento di felicità.

Voto: 9









giovedì 13 giugno 2013

Troppo amore di Almudena Grandes

“Da quella mattina in poi, ci sarebbe stato sempre qualcos’altro, perché i suicidi si ammazzano, ma non muoiono mai del tutto. Sopravvivono nella coscienza di chi sopravvive a loro, e il loro amore è implacabile, capace di avere la meglio sul tempo e sullo spazio, così potente da resuscitare le colpe dimenticate, la sofferenza attutita, gli errori che sembravano decaduti. Da quando Marcos è morto, io ho vent’anni tutti i giorni, almeno in un momento di tutti i giorni. Da quando Marcos è morto, tutti i giorni apro la cartella, tiro fuori i disegni, li guardo, li tocco e mi affliggo. Da quando Marcos è morto, tutti i giorni capisco che il resto della mia vita è passato invano, che non mi è più successo niente, che non ho saputo fare bene niente senza di loro. Questa è stata la sua eredità, forse la sua vendetta.” Maria Josè

Ci sono volte, lo ammetto, che contrariamente alle mie abitudini, decido di optare per romanzi brevi. Non so perché, ma il weekend passato è stato così: mi sentivo pigra e poco volenterosa. Avevo (ed ho tutt’ora) Il Corsaro nero di Salgari a metà, ma le storie di pirati non erano quello che in quel momento stavo cercando..volevo un po’ di sentimenti veri, una storia d’amore di quelle che fanno commuovere, non la banalità degli ultimi romanzetti pseudo-fantasy. Cercando sul web ho letto la suddetta citazione e ho cercato di capire a quale romanzo appartenesse: Troppo amore di Almudena Grandes. Ora, già un titolo così, per noi donnine che ci sentiamo sempre in credito d’amore col genere maschile, è un bell’inizio. Così ho visto quante pagine contasse il libro (99, per la cronaca) e mi sono decisa a leggerlo. Ho scaricato l’ebook in questione e il famosissimo Le età di Lulù (che ho accantonato) e devo dirvi che mi è piaciuto davvero tanto.
Comincio dallo stile dell’autrice perché la trama si merita un finale adeguato e ponderato: cominciamo dicendo che  penso che come i sudamericani o gli ispanici, nessuno riesca a narrare la vera passione amorosa, quella che ti travolge e stravolge. Francesi, inglesi, americani e italiani, potete inchinarvi: come loro non ce n’è. Ogni volta che leggo un romanzo spagnolo o sudamericano che parli d’amore o in generale di una passione, non riesco a non lasciarmi coinvolgere durante il tragitto. È più forte di me.  Per quanto riguarda le peculiarità dell’autrice, devo dire che ha uno stile che apprezzo: va dritto al sodo, ci sono qua e là pennellate poetiche che stanno al loro posto (e lo vedi che ci stanno particolarmente a loro agio) e tutto è perfetto. Come quei quadri di Monet. Superbo.
Nella sua concentrazione da romanzo breve, non manca nulla: dalla crescita personale, alla storia d’amore, ai colpi di scena, alla contestualizzazione delle vicende nel periodo storico..una sorta di puntinismo letterario che dà una visione d’insieme eccellente.
Questo mini-romanzo è ambientato nella Madrid esaltata e provocatoria degli anni ’80: Maria Josè ha vent’anni e viene ammessa all’Accademia di Belle Arti. Qui conosce una coppia di amici: Jaime, un ragazzo di Valencia, basso, scuro e tarchiato, con mani tozze come quelle di un muratore ma capace di disegnare angeli e  Marcos, alto, biondo bello come un dio e sempre perso nei suoi pensieri. Josè non sa che da li a poco comincerà il periodo più intenso, artisticamente e sentimentalmente parlando, della sua vita: in tre scopriranno il piacere, supereranno blocchi emotivi, proveranno l’ebbrezza della sfida alle convenzioni. In tre scopriranno cosa significhi avere legami inscindibili. Tre, dicono sia il numero perfetto. Forse è vero, forse no. Sappiamo solo che d’amore si può morire dentro e forse anche un po’ fuori e che questo legame eccessivo, per loro risulterà drammatico. Come si fa a continuare a vivere quando si ha avuto tutto e ci si ritrova con niente? Troppo amore, afferma la Grandes. Che poi, l’amore può essere mai troppo?
Voto: 8 1/2


Vi lascio con una citazione di Benigni che mi ha fatto sorridere e che tutt’ora mi fa pensare: Troppo è sempre sbagliato, anche in amore. Quanti errori vengono fatti per troppo amore? Non esiste il “troppo amore”, l’amore è come la morte: o sei innamorato o non sei innamorato, o sei morto o non sei morto. Non si dice “è troppo morto”… no, non è “troppo morto” Uno è morto o non è morto, l’amore e la morte sono uguali.





mercoledì 12 giugno 2013

#3 Le Boudoir: intervista ad Amanda Perera, fotografa

Intervista ad Amanda Perera, 24 anni, fotografa


Una vita divisa tra Milano, Londra e Colombo per una professionista che fa della realtà la sua musa ispiratrice, così come tanti prima di lei. Dei suoi lavori ci colpisce il dettaglio: sono foto che vanno osservate a fondo, in bianco e nero. Non c'è lo schiaffo del colore, che potrebbe distogliere dal messaggio che la fotografa vuole svelarci. Ma da dove viene una consapevolezza così cosciente di quello che si è immortalato? Leggiamolo insieme.
Ciao Amanda, benvenuta nel mio piccolo coin e grazie per aver accettato di partecipare all’intervista. Sappiamo che ci rispondi dall'altra parte del globo e che sei impegnata con i tuoi progetti quindi grazie anche per la pazienza. Siamo alla terza intervista della rubrica chiamata “Le Boudoir” di Born to be Wilde: come vedi, ci piacciono gli inizi col botto. Cominciamo subito!


1.       Quando hai capito che la fotografia sarebbe stata parte integrante della tua vita? C’è un episodio in particolare che ti ha spinto a diventare fotografa?
 Sono sempre stata appassionata di fotografia ma non ne ero consapevole fino alla fine del liceo. Era un periodo un po’ confuso non sapevo cosa fare e dove. I miei genitori volevano che studiassi a Londra e un giorno andai vagabondando per Milano e mi chiesi cosa mi piacesse e la prima cosa che mi venne in mente era la fotografia. Da li in poi è stato amore.

2.       Raccontaci il tuo percorso formativo: sappiamo che sei stata a Londra. Che aria si respira lì per gli aspiranti fotografi?
 Ho studiato fotografia di moda alla London College of Fashion.  Con Londra ho un rapporto di amore e odio. Londra è intensa, caotica, in continuo movimento e cambiamento, gente che va gente che viene, e a volte è troppo da sopportare. Nel campo della fotografia la competizione è alta. Ricordo che ovunque andassi incontravo almeno due e tre aspiranti fotografi, questo da un lato mi spaventava a morte e pensavo "non c’è spazio per tutti" ma dall’altro incontravo gente con la mia stessa passione con cui scambiare idee, opinioni e con cui confrontarmi. 

3.       Perché al giorno d’oggi è così difficile affermarsi dal punto di vista professionale in quest’arte? Che soluzioni proporresti per migliorare la situazione?
 Prima di tutto il ruolo del fotografo è spesso idealizzato in modo erroneo: fama, soldi, modelle da urlo, vita da lusso, posti da perdere il fiato e poco impegno. Ma solo l’1 % fa questa vita. Penso che il numero di aspiranti fotografi di moda aumenti e dovuto al fatto che molti sono attratti da questo stile di vita più che la passione per la fotografia. Poi non è da sottovalutare che con la fotografia digitale produrre foto accettabile è più semplice, veloce e meno costoso quindi più gente si lancia nel mondo della fotografia.

4.       Qual è il servizio fotografico o la fotografia che ti è rimasta nel cuore? Ce la mostri?
 Il progetto che ancora oggi penso sia quello che rispecchi di più il mio stile e il mio approccio fotografico è un progetto intitolato ‘Irreversible’ . E’ una serie di immagine che racconta la storia di un fratello e una sorella che vivono in Italia e sono originari dello Sri Lanka.

mercoledì 5 giugno 2013

Piccole recensioni per piccoli risparmiatori n°4: La casa stregata di Howard Phillip Lovecraft

"Siamo circondati da sacri misteri del bene e del male, e viviamo e ci muoviamo in un mondo oscuro, un luogo di tenebre, caverne ed abitatori del crepuscolo. Talvolta accade che l'uomo si volga indietro sulle tracce della propria evoluzione, ed è mia opinione che esistano segreti paurosi non ancora dimenticati." Arthur Machen

Sto cominciando a capire perchè ai libri vengano aggiunte le introduzioni. Per quanto riguarda gli autori conosciuti e ormai amici dopo anni di lettura, le ho sempre saltate a piè pari (vedi la Austen o Zola o King) ma da quando ho cominciato a comprare i libricini della collana LIVE di NewtonCompton, libri che a prezzo intero magari non avrei mai comprato, ho iniziato a leggere le intro. E sopresa! Spesso ti danno la chiave per interpretare un romanzo nella maniera corretta: romanzi ai quali avresti dato un voto osceno, all'improvviso raggiungono la sufficienza grazie all'introduzione che ti fa capire diversi aspetti della narrazione o anche della storia. Spiego questo perchè un'infarinata su Lovecraft mi serviva. A parte i concetti di Chtulhu che avevo appreso grazie a una puntata di South Park (shame on me), ne sapevo poco altro. La parte che ci interessa è l'abilità di questo scrittore, al pari di Poe, di scatenare il terrore nel lettore nei confronti dell'ignoto. Ma se ciò che è orrore per Poe, spesso rimane ignoto e quindi angosciante, per Lovecraft l'orrore ha una faccia ben definita ma che sta dietro a veli che è meglio non togliere perchè quel che c'è dietro potrebbe farci uscir di senno. E' una differenza sottile ma fondamentale, secondo il mio parere.
Se vi interessa saperne di più su questo prolificissimo autore, Wikipedia fa per voi.
Detto ciò, veniamo al libricino intitolato La casa stregata: contiene due racconti abbastanza lunghi. Il primo si intitola per l'appunto La casa stregata, il secondo si intitola L'orrore di Redhook. La casa stregata narra di un'abitazione centenaria che ha visto il succedersi di morti particolari: nessuna malattia, nessuna epidemia, solo ferale consunzione e a volte pazzia. Le ipotesi più accreditate per queste morti inspiegabili sono i vapori maligni dei quali la cantina della casa trasuda. Altro macabro dettaglio è la formazione di una strana muffa biancastra vicino al camino, muffa che in determinati giorni assume angoscianti forme antopomorfe. La cosa interessante per il narratore e protagonista è che sembra che questo male sia intrinseco e proprio della casa, non affetta il vicinato nè la via sulla quale la casa si affaccia. Dopo svariate ricerche storiche, il protagonista pensa di aver trovato qualcosa di interessante e decide di stabilirsi in pianta stabile in cantina e... e poi dovete leggerelo voi perchè merita!
Il secondo racconto invece narra le vicende di un poliziotto irlandese, naturalizzato americano che si trova a gestire la malfamata zona portuale di Redhook: qui tra strani riti satanici dell'europa dell'est e folkloristiche  riunioni di gente straniera in chiese sconsacrate, scoprirà un'agghiacciante verità, nascosta da quel velo di cui parlavamo prima, un velo che non dovrebbe mai essere tolto. 
Di più non posso dirvi, a parte che se il genere vi piace, troverete pane per i vostri denti.
Lo stile, a prescindere da quello che dicono i critici, non mi sembra così aulico da rendere difficile la lettura ed è molto scorrevole. Tra Poe e Lovecraft probabilmente preferisco il secondo ma avrei bisogno di ulteriore prove "libriche". A me è piaciuto molto soprattutto il primo racconto. Il secondo va un po' aldilà della mia comprensione giacchè non sono molto interessata a satanismo&co. Comunque ve lo consiglio. 0,99 cents ben spesi.
Voto 7 1/2